Piazza Sarzano di Dino Campana
Dino Campana nasce nella provincia fiorentina, a Marradi, nel 1885. Fin dall’adolescenza accusa turbamenti di natura psichica che tuttavia non gli impediscono di iscriversi alla facoltà di Chimica dell’Università di Bologna. Dopo un primo internamento in manicomio, interrompe gli studi e inizia a vagabondare per l’Italia e l’Europa. Nel 1913 consegna a Soffici e Papini, direttori della rivista Lacerba, il manoscritto di un volume di liriche, Il più lungo giorno, che, purtoppo, Soffici smarrisce e viene ritrovato tra le sue carte solo nel 1971. Il poeta riscrive il testo delle poesie a memoria. Nell’estate del 1914 pubblica, a sue spese, la sua opera col nuovo titolo Canti orfici e ne vende le copie lungo le strade e nei caffè.
Tre brani della raccolta, Sogno di prigione, L’incontro di Regolo e Piazza Sarzano sono pubblicati dalla rivista Lacerba in anteprima e definiti da questa «tre pezzi di minerale poetico».
Qui ti riporto il testo di Piazza Sarzano, un capolavoro di poesia in prosa, in cui lo sguardo del poeta descrive la piazza con toni e sfumature ora delicati ora profondamente realistici, annotando, come se fosse un diario, le sue impressioni.
«A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate.
Intorno, nell’aria del crepuscolo, si intendono delle risa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera che cela una campana: mentre accanto, una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano.
Un vertice colorito dall’altra parte della piazza mette quadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata svariata di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiante sopra dei vicoli il velo rosso del rosso mattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio. L’oblio così caro alla statua del pagano imperatore sopra la cupoletta dove l’acqua zampilla senza fretta sotto lo sguardo cieco del savio imperatore romano.
Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di un’immobilità di gioia inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo al deserto della piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. È la notte mediterranea.
Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza accesa sul corroso mattone sù a capo dei vicoli gonfi e cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata e torbida, a lato dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza. La via si torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleggiano ancora tra lo svariare del verde e si scorge in fondo il trofeo della V. M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria.»
Da Lacerba, anno II, n° 2 del 15 gennaio 1914
Un testo ricchissimo di suggestioni e di ispirazioni, che mostra la maestria di Dino Campana, un poeta che, a mio avviso, andrebbe letto per il suo grande talento, per la sua capacità di creare immagini e per il suo saper usare i mezzi poetici in maniera rara e preziosa. Al di là dei toni crudi, angoscianti e anche allucinati con cui scrive diversi suoi componimenti, emergono in altri limpidi il suo impressionismo paesistico e il suo simbolismo intenso, vivo ed emozionante.