LA PROMESSA DI MATRIMONIO: COS’È? DI COSA SI TRATTA?
Quando si parla della promessa di matrimonio si rischia di confonderla con le promesse (al plurale) di matrimonio che si pronunciano durante la cerimonia civile e le cerimonie simboliche o con lo scambio di promesse (la breve ma intensa frase «prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita») del matrimonio religioso.
La promessa di matrimonio, per la legge, è invece un atto giuridico ben definito, regolato dagli articoli 79, 80 e 81 del Codice civile. Un atto che non ha nulla a che vedere con i voti e le promesse nuziali, cioè con il discorso con cui dichiarate, con dolcezza e forza, tutto il vostro amore, prendete l’impegno di far funzionare la vostra unione ed esprimete desideri, sogni e progetti che volete realizzare.
La promessa di matrimonio è un atto con caratteristiche ben precise: andiamo, quindi, a vedere in dettaglio cosa si intende quando si parla di promessa di matrimonio dal punto di vista giuridico.
Cos’è la promessa di matrimonio: la definizione giuridica
La promessa di matrimonio è la dichiarazione libera, espressa oppure tacita, con cui si manifesta la volontà di sposarsi. È l’atto con cui uno dei due si impegna nei confronti dell’altro a contrarre matrimonio oppure con cui i futuri sposi si impegnano reciprocamente. Con la promessa, i futuri marito e moglie – detti nubendi – affermano con serietà e responsabilità l’intenzione di contrarre matrimonio.
La promessa di matrimonio non è un obbligo: l’art. 79 del Codice civile stabilisce chiaramente che «la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non adempimento». La promessa, quindi, non fa sorgere l’obbligo giuridico di contrarre il matrimonio. Sposarsi come non sposarsi è considerata una facoltà e un atto di natura personalissima e un diritto fondamentale, rispetto cui l’individuo ha piena libertà. Sino al momento della celebrazione delle nozze, dunque, il consenso resta libero e modificabile e mai soggetto a costrizioni o coercizioni e la promessa può essere rotta e ritirata. È nella libertà dell’individuo ripensarci.
La promessa non fa, inoltre, sorgere l’obbligo giuridico di adempiere a quanto si sia convenuto, nel momento in cui la si è fatta, di prestare in caso di mancata celebrazione delle nozze, ovvero a quanto sia stato dedotto dai due fidanzati nella promessa come penale per il mancato adempimento – anche se vedremo che, in caso di rottura, si determinano effetti e conseguenze.
Promessa di matrimonio semplice e solenne
La legge distingue due tipi di promesse: la promessa di matrimonio semplice e la promessa di matrimonio solenne.
La promessa di matrimonio semplice, cui l’articolo 80 del Codice civile fa riferimento, è un atto che viene compiuto senza che siano richieste particolari forme o siano previsti dati requisiti da soddisfare. È la manifestazione reciproca o di uno verso l’altra della volontà di unirsi in matrimonio, il primo passo di un cammino insieme. La promessa semplice è, in altre parole, identificata dalla legge col fidanzamento ufficiale. Si tratta nella sua essenza di un fatto sociale, da cui scaturisce per i due il dovere morale di contrarre in futuro matrimonio e che porta a conoscenza di familiari e parenti, amici e conoscenti della loro volontà.
La promessa di matrimonio solenne (articolo 81 del Codice civile), come dice il nome stesso, è un impegno vicendevole che viene preso secondo certi canoni:
- può essere assunto per atto pubblico o con una scrittura privata autenticata – quindi con una dichiarazione in forma scritta
- oppure può essere ufficialmente preso con la richiesta di pubblicazione di matrimonio secondo le modalità previste dall’art.93 del Codice civile.
In entrambi i casi la volontà risulta da un documento scritto, segno di un impegno serio e preciso.
La promessa di matrimonio è obbligatoria?
Questa è una domanda che capita di frequente. La promessa di matrimonio è obbligatoria, nella forma solenne delle pubblicazioni, per sposarsi in Comune con rito civile e in chiesa per i matrimoni concordatari. Senza aver effettuato le pubblicazioni, non ci si può infatti sposare né in comune né in chiesa se si è deciso per il matrimonio concordatario. In questo caso, alla volontà delle parti si unisce l’aspetto burocratico del matrimonio e la decisione circa la sua data. La promessa di matrimonio e tantomeno le pubblicazioni non sono necessarie per le cerimonie simboliche che non hanno validità dal punto di vista giuridico.
Qual è la durata della promessa di matrimonio?
Solitamente si identifica la durata della promessa di matrimonio con la durata delle pubblicazioni. Non è esatto. La promessa può risultare da atto pubblico, da una scrittura privata, anche se nella nostra società non accade di frequente, oppure, anche, da una corrispondenza epistolare tra i due innamorati. La promessa può derivare dal fidanzamento ufficiale. La sua durata è quella che i due fidanzati stabiliscono. Termina, in sostanza, il giorno delle nozze e può durare ben più di sei mesi. Esisteva già prima delle pubblicazioni.
Quando la promessa è fatta con le pubblicazioni, allora la sua durata è di sei mesi (180 giorni, da contarsi ricevuto il nullaosta) perché quello è il termine di validità delle pubblicazioni, il termine entro cui il matrimonio deve essere celebrato. Tuttavia, può capitare che per dati motivi, il matrimonio sia rimandato e non possa celebrato entro il termine dei 6 mesi (180 giorni). In quel caso, la pubblicazione, una volta scaduta, si considera come non avvenuta e la si può ripetere.
Se alla promessa non fa seguito il matrimonio che cosa succede?
La promessa non obbliga a contrarre matrimonio. La sua rottura, come ha riconosciuto la Corte di Cassazione, non costituisce un illecito extracontrattuale, in quanto è espressione della fondamentale libertà matrimoniale e personale e quindi non è un obbligo. Non rappresenta un’ipotesi di responsabilità contrattuale o precontrattuale, poiché la promessa di matrimonio non è un contratto. Tuttavia, se la promessa viene infranta e il matrimonio non viene più celebrato, vi sono effetti e conseguenze giuridici.
A) La rottura della promessa semplice
Se alla promessa semplice non segue il matrimonio, il Codice civile sancisce con l’articolo 80 che il promittente possa chiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa, facendone domanda entro un anno dal giorno in cui si è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio o la morte di uno dei promittenti.
I doni¹ da restituire per il mancato matrimonio sono le attribuzioni date all’altro a titolo gratuito, valide ed efficaci, giustificate dal fidanzamento in vista del futuro matrimonio. Un esempio tipico di regalo di cui può essere chiesta la restituzione è l’anello di fidanzamento. L’art. 80 c.c. riguarda, dunque, quei doni che è uso fare per il solo fatto di considerarsi fidanzati, che cioè trovano come motivo il fidanzamento, il frequentarsi seriamente, in vista in futuro di sposarsi, indipendentemente dalle ragioni per cui si è posta fine alla relazione. La facoltà di chiedere indietro i doni è, nel caso della promessa semplice, data senza che importino i motivi della rottura del fidanzamento. La legge non intende indagare il perché la rottura sia avvenuta, né vuole stabilire di chi è la responsabilità della fine del rapporto.
La richiesta di restituzione dei doni ha lo scopo di rimuovere rapidamente ogni traccia del fidanzamento, per poter ricostruire un nuovo rapporto senza alcun ricordo di quello precedente. E vale qualsiasi siano i motivi o le cause per cui si è arrivati alla rottura: il diritto alla restituzione nasce dal fatto che il matrimonio promesso non si è celebrato.
«Il promittente può domandare la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio, se questo non è stato contratto (785, 2694). La domanda non è proponibile dopo un anno dal giorno in cui s’è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio o dal giorno della morte di uno dei promittenti» Articolo 80 C.C.
B) La rottura della promessa solenne
La rottura della promessa solenne che avvenga senza giustificato motivo ha conseguenze patrimoniali più ampie della rottura di promessa semplice, in ragione del maggior impegno che sancisce. La promessa solenne è vicendevole ed è fatta con maggiori formalità da cui si deduce la sicurezza e certezza della volontà reciproca. Ecco allora che il recesso senza giustificato motivo equivale a un venir meno alla parola data e all’affidamento creato nel promissario.
La sua rottura, dunque, oltre all’obbligo di restituzione dei doni, obbliga chi rifiuta il matrimonio a risarcire all’altra parte il danno per le spese sostenute e per le obbligazioni contratte a causa della promessa stessa. Si tratta di spese e obbligazioni relative ai preparativi delle nozze e a ciò che serve per la futura vita insieme del matrimonio. Le spese d’acquisto dell’abito da sposa o da sposo, delle bomboniere, le spese relative alla cerimonia e al ricevimento, l’anticipo sull’affitto della casa degli sposi, i costi di ristrutturazione, di costruzione o di acquisto (le rate del mutuo) del futuro appartamento coniugale sono tutte risarcibili, perché sono tutti esborsi economici effettuati facendo affidamento sull’impegno reciprocamente assunto e volto alle nozze. Da ricordare che il risarcimento è dovuto nella misura in cui esso corrisponde alle condizioni economiche delle parti, è, cioè, proporzionato a esse.
Sono invece completamente esclusi i danni morali e “psicologici”, per cui non può essere chiesto il risarcimento.
«La promessa di matrimonio fatta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata da una persona maggiore di età o dal minore ammesso a contrarre matrimonio a norma dell’Articolo 84, oppure risultante dalla richiesta della pubblicazione, obbliga il promittente che senza giusto motivo ricusi di eseguirla a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa. Il danno è risarcito entro il limite in cui le spese e le obbligazioni corrispondono alla condizione delle parti (2056). Lo stesso risarcimento è dovuto dal promittente che con la propria colpa ha dato giusto motivo al rifiuto dell’altro. La domanda non è proponibile dopo un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio (2964 e seguenti)» Articolo 81 C.C.
Il giusto motivo che esclude il risarcimento
La parte che rifiuta il matrimonio non deve risarcire l’altra, se prova che il suo comportamento è legato ad un «giusto motivo» che esclude il risarcimento del danno. Il “ripensamento” è espressione del diritto fondamentale della libertà di contrarre o meno matrimonio. Non può perciò essere considerato un comportamento contro la legge e non genera responsabilità.
Sono considerati giusti motivi di rifiuto a contrarre le nozze quelli previsti dall’art. 122 del Codice civile, relativo all’impugnazione del matrimonio, oppure i fatti che se fossero stati conosciuti o si fossero verificati prima della promessa avrebbero impedito all’interessato di prestarla (l’infedeltà, precedenti riprovevoli, tendenza al gioco o al bere).
¹ I cosiddetti doni prenuziali
² Cassazione Civile, sezione III, 15/04/2010, n°9052, ribadito dalla sezione VI/3 della Cassazione il 2/1/2012, n°9.
Giuseppe Sabino
Interessante, anche il modo come lo spieghi! 180 giorni….eh?!?😍
Federica
Giuseppe, ho voluto fare un post accurato e preciso, trattando l’argomento giuridico con serietà ma senza essere noiosa!! Sono informazioni preziose che difficilmente trovi in rete!
Sì!!! Sono 180 giorni dal nullaosta!! <3 <3