«L’ABETE» DI HANS CHRISTIAN ANDERSEN
In questi giorni, ho letto una fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen che mi è piaciuta molto e di cui voglio parlarvi in questo post.
Chi era Andersen
Nato in Danimarca nel 1805, Hans Christian Andersen, considerato l’inventore della fiaba moderna (recuperò numerose fiabe della tradizione nordica rielaborandole in modo originale e secondo il suo gusto personale), era figlio di un povero ciabattino che lo lasciò orfano a undici anni e di una donna che finì all’ospizio per alcolizzati. Compì studi irregolari, ma riuscì ad entrare all’università e a laurearsi nel 1827.
Nel 1835 iniziò a pubblicare le prime fiabe che riscossero da subito successo e nell’arco di qualche anno lo portarono alla notorietà. Quei testi erano l’espressione della sua fantasia vivace ed originale e romanzavano spesso vicende della sua vita da cui traeva ispirazione. Morì a Copenaghen nel 1875.
La fiaba «L’abete»
La fiaba racconta di un giovane e grazioso abete che viveva in un bosco, con molto spazio e aria a disposizione. Quell’abete non si curava di ciò che gli stava attorno e la sua unica preoccupazione era crescere in fretta, per diventare alto, grosso e vecchio. Sognava di diventare l’albero maestro di una nave, come i molti che la cicogna gli confidava di aver visto, o di essere piantato in mezzo ad una stanza e decorato con dolci e candeline, come gli raccontavano i passerotti al ritorno dai loro voli. Ma a rallegrarsi per la giovinezza e per la vita che erano in lui, come gli suggerivano i raggi del sole, non ci pensava proprio. Non sentiva nemmeno il vento che gli accarezzava le fronde e la rugiada che lo rinfrescava con le sue gocce. Non era capace di gioire per nulla di ciò che gli stava intorno o accanto, né per il fatto di essere un abete.
Il tempo passò e, finalmente, un Natale fu il primo albero a cadere per terra. Sentì un intenso dolore e provò un forte dispiacere nel realizzare che doveva abbandonare la zolla di terra da cui era spuntato e cresciuto, la sua casa fino a quel momento, e che non avrebbe più rivisto i suoi compagni. Era, infatti, stato scelto a motivo della sua bellezza per essere decorato come albero di Natale. Fu portato in una grande sala e addobbato con mele, noci dorate, candeline, bambole, retine colorate piene di caramelle e una grande stella di stagnola in cima. La sera, ai suoi piedi, dopo che tutte le candeline si furono consumate e i cibi e i giocattoli staccati, fu raccontata una storia, che lui seguì attentamente e imparò con facilità.
Per l’abete quella di Natale fu una giornata meravigliosa, piena di festa e pensò che pure la successiva sarebbe stata identica. Invece, finì in soffitta, in un angolo, al buio, da solo. Passarono i giorni e nessuno più si curò di lui. S’illuse che, essendo inverno, gli uomini lo avrebbero lasciato lì fino a primavera, quando finalmente lo avrebbero interrato di nuovo (non si rendeva conto di non avere più le radici), riportandolo alla vita. Con nostalgia gli tornò alla mente la lepre che d’inverno, quando si trovava nel bosco, gli saltellava sopra o vicino, tutt’intorno. Lì, invece, così lontano dal suo habitat naturale, soffriva una tremenda solitudine. Un giorno capitarono in soffitta dei topolini, ai quali raccontò la sua storia e la sua gioventù. Parlò loro del bosco, dove il sole splendeva pieno di luce e gli uccellini cinguettavano felici. Raccontò anche della notte di Natale, di come era stato addobbato, della fiaba che aveva sentito e imparato. Alla fine, però, anche i topolini non tornarono più. L’abete tornò ad essere solo e decise che, una volta uscito da lì, si sarebbe ricordato di divertirsi.
Un giorno l’albero fu portato fuori dalla soffitta, ma non fu ripiantato, come si attendeva. Fu gettato in cortile tra ortiche ed erbacce. L’abete si guardò intorno: lui era secco e giallo, mentre il giardino con cui confinava il cortile era pieno di fiori e vita. Avrebbe preferito essere rimasto in soffitta. Fu tagliato e bruciato sotto un grande paiolo. Ogni volta che un pezzo veniva gettato nel fuoco, l’abete sospirava ripensando ai giorni d’estate del bosco, alla festa di Natale e all’unica storia che aveva sentito e sapeva raccontare, e piano piano si consumò.
Quale insegnamento trarre
La fiaba ci parla di un abete proiettato verso il futuro, ansioso di diventare grande, alto, grosso, vecchio, perché pensa che crescere sia la cosa più bella del mondo. Questa fretta gli impedisce però di conoscere chi vive intorno a lui (come gli altri alberi) e di godere del sole, della luce, dell’aria, della bellezza paesaggio delle sue giornate. Solo dopo la delusione (quando comprende di essere stato relegato nella solitudine della soffitta, da cui uscirà per essere bruciato) si rende conto di non aver mai apprezzato chi era e ciò che aveva e di non aver mai gioito, quindi vissuto, davvero, inseguendo le ambizioni abbaglianti di un futuro lontano (temporalmente e spazialmente) che credeva dovesse essere il suo, ma non lo era, in realtà.
La fiaba insegna a essere sé stessi e a non crearsi false idee o illusioni sulla base di ciò che si ritiene di dover diventare guardando agli altri o sulla base di ciò che si sente dire. Insegna, in altre parole, a non rimanere fermi sulla superficie delle cose, ma invita a pensare e riflettere, andando in profondità e con occhi limpidi.
Se fosse ambientata ai giorni nostri, però, mi piacerebbe riscrivere il finale. Tra i molti possibili – mantenendo l’impostazione morale data da Andersen – mi piace questo: portar fuori l’albero dalla soffitta e usarlo per produrre carta in abbondanza, sulla quale scrivere la sua storia e quella di tanti altri suoi amici (alberi, lepri, uccellini) ed essere tenuta tra le mani di molti bambini, per molto tempo ancora.
© Federica Rizzi – Tutti i diritti riservati